di Gianfranco Bettin – Premessa: solo i critici più ingenui del MOSE pensavano che “non avrebbe funzionato” nel senso che non si sarebbe mai riusciti a tirare su le 78 paratoie incernierate nei cassoni di alloggiamento posati sul fondo delle tre bocche di porto, separando mare e laguna per un certo lasso di tempo e, per quel tempo, proteggendo Venezia dall’acqua alta.
È quello che avviene in queste ore e che è avvenuto una ventina di volte da quando il MOSE è stato messo in funzione davvero, dopo qualche prova, il 3 ottobre 2020.
I critici più avveduti hanno sempre pensato che dopo un trentennio almeno di piani, tentativi, progetti, lavori, dopo una montagna di soldi spesi, al di là della corruttela, dell’arbitrio pieno sulle spese da parte di controllori che controllavano sé stessi e il proprio operato, del pesante condizionamento di politica, economia, cultura, università, della città nel suo insieme, almeno il risultato di tirar su quelle paratoie per un certo tempo – vedremo quanto – sarebbe infine stato conseguito. E infatti ci siamo.
Ce le godiamo anche noi queste ore senza acqua alta, ben sapendo quale impatto avrebbe avuto (questa del 22 novembre, a 173 cm, sarebbe stata una delle maggiori di sempre). Anche perché sappiamo bene cosa abbiano comportato i ritardi – almeno vent’anni! – nel realizzare adeguate difese.
È stata proprio la scelta di un progetto macchinoso e azzardato, compiuta con una violenta forzatura politica e formale, ignorando, con molte critiche del mondo scientifico, ogni serio confronto con progetti alternativi, è stata questa scelta a produrre ritardi ventennali, continui stop and go, scoperte ricorrenti di guasti, inconvenienti, imprevisti, necessità di aggiustamenti e revisioni, continui rinvii di collaudi, lievitazioni della spesa – anche al netto della corruzione – incertezze e ripartenze che hanno lasciato Venezia alla mercè delle acque alte quando da almeno vent’anni sarebbe stato possibile difenderla con altre soluzioni.
Ma adesso ci siamo, pare, vecchi e nuovi e nuovissimi fans oltre a gioire, come noi, della città asciutta commentano tronfi per provare a far dimenticare i decenni e i disastri che abbiamo alle spalle.
Torniamo all’ABC dunque. Ora il MOSE c’è e dunque:
A – deve salvare Venezia e, insieme, la LAGUNA.
B – deve salvare Venezia e la laguna e, insieme, l’economia del PORTO (commerciale, industriale, turistico, della pesca).
C – deve salvare Venezia, la laguna, l’economia portuale nel quadro evolutivo drammatico dei MUTAMENTI CLIMATICI in corso, con l’aumento del volume e del livello medio del mare e della frequenza, portata e intensità delle maree.
Se lo si guarda su tale sfondo, il sollievo per la città asciutta in queste ore non può essere, al meglio, che la boccata d’ossigeno per riprendere energia e prepararsi ad affrontare ben altra tempesta. I tronfi e i gongolanti si accingano – e anche noi, certo.
Quindi, ricapitolando e precisando:
C – un errore strategico di chi ha concepito il MOSE è stato quello di sottovalutare, considerando pressoché solo variabili locali, proprio il “climate change” e la dinamica dei livelli e delle maree, al punto da stimare di 22 cm soltanto l’innalzamento del livello medio del mare atteso a fine secolo (“valore probabile cautelativo”), quando l’IPCC lo stima, in uno scenario ottimistico, a 28-55 cm e in uno più realistico-pessimistico a 63-101 cm. Non stiamo parlando di effetti paventati a lungo termine: sono effetti IN CORSO e averli sottovalutati ha agevolato la scelta di un progetto che, dunque, è stato pensato per entrare in azione quattro o cinque volte l’anno per qualche ora ogni volta. Ma se invece frequenza e portata delle maree si manifestano con ben altra intensità, come sta accadendo, come è già accaduto da quando il MOSE è entrato in funzione (pur non essendo ancora completato davvero), allora bisogna fare i conti diversamente con i punti B e A.
B – Chiusure troppo frequenti delle bocche di porto, con il MOSE in funzione e le paratoie sollevate, penalizzano duramente gli operatori del porto (un pilastro dell’economia cittadina) e della pesca (con una marineria fra le maggiori in Italia). È già successo, sta succedendo.
A – Chiusure troppo frequenti colpirebbero al cuore l’ecosistema lagunare, che, due volte al giorno, nello scambio d’acqua con il mare trova il suo vitale metabolismo.
Il MOSE non risolve in modo convincente nessuno di questi cruciali problemi, proprio per come è stato pensato e realizzato e anche superando i problemi specifici di funzionamento emersi finora (sabbia, ruggine, oscillazioni e tenuta da verificare nel tempo delle paratoie ecc.) e pur avendo garantita, si spera, l’annuale montagna di soldi necessaria al funzionamento e alla manutenzione (nel quadro di una rivisitata e adeguata Legge speciale, più attenta anche alla rigenerazione socioeconomica, al contrasto alla monocultura turistica e al calo demografico e alla difesa del diritto ad abitare e a lavorare a Venezia: in Comune abbiamo votato una richiesta allo Stato di 150 milioni di euro all’anno per questo).
Mentre, dunque, il MOSE entra in funzione e comincia a misurarsi con la realtà vera e incalzante del quadro climatico e ambientale, e mentre i suoi vecchi e nuovi fans festeggiano a volte stolidamente, è già tempo di pensare a una diversa evoluzione sistemica dei meccanismi di salvaguardia fisica della città e della laguna (litorali e vecchie difese a mare comprese), che rilanci gli interventi articolati e diffusi e riprenda i piani di sollevamento del fondo lagunare e delle basi della città.
Ne abbiamo già parlato molte volte, non è adesso il caso di ripetere proposte su cui si tornerà comunque a breve. Qui e ora vale invece la pena di ricordare, appunto, l’ABC della questione, invitando a guardare alla prospettiva, al nuovo drammatico contesto IN CUI SIAMO GIÀ e che richiede di andare oltre il MOSE, altro che compiacersene.
Gianfranco Bettin
consigliere comunale lista Verde Progressista
foto di Gwenael Piase